Protagonista del film L’invenzione di noi due, Silvia D’Amico si racconta a The Wom in un gioco sottile tra personaggio interpretato e donna nella realtà, rivelando la natura di un talento votato alla sincerità e all’imprevedibilità.
Nell'articolo:
- Intervista esclusiva a Silvia D’Amico
- L'invenzione di noi due: Le foto del film
Silvia D'Amico, una delle più interessanti attrici del nostro panorama, interpreta Nadia nel film L'invenzione di noi due di Corrado Ceron che, basato sull'omonimo bestseller di Matteo Bussola, arriva al cinema dal 18 luglio distribuito da Be Water Film in collaborazione con Medusa. Nadia è una donna sposata con Milo da quindici anni, che si trova a vivere un momento di crisi personale e relazionale.
La sua mancanza di desiderio e interesse verso il marito porta Milo, impersonato da un sorprendente Lino Guanciale, a un tentativo disperato di riconquistarla attraverso una corrispondenza segreta, in cui finge di essere un altro uomo. Lo stratagemma riaccende la comunicazione e la passione tra i due, permettendo loro di riscoprire se stessi e il loro rapporto.
Nel corso del film, Nadia intraprende un viaggio di autoaffermazione che la mette al cospetto anche con il suo desiderio di diventare scrittrice, mettendo in dubbio il suo talento e le sue aspirazioni. Qualcosa di molto diverso da Silvia D'Amico, che sin da bambina ha sempre mostrato una forte passione per la recitazione. E la sua determinazione si riflette nel suo impegno a interpretare ruoli complessi e sfaccettati, come quello di Nadia.
La sua capacità di affrontare i "no" e le sfide con tenacia e leggerezza ha giocato un ruolo cruciale nella costruzione del percorso artistico di Silvia D'Amico, un’attrice in grado di adattarsi alle variabili imprevedibili del suo lavoro e di giocarci facendole proprie, mostrando una grande flessibilità e apertura ai cambiamenti.
Un tratto distintivo del suo approccio alla recitazione è l'autenticità. L’essere se stessa è stato per Silvia D'Amico l’unico imperativo da seguire, anche a costo di deludere, piuttosto che illudere, ma sempre con energia e onestà.
Ma nel parlare del film di cui è protagonista, in cui un grande amore diventa cenere e poi da cenere di nuovo amore, Silvia D'Amico nel corso dell’intervista in esclusiva che ci ha concesso non può che riflettere su come il suo rapporto con il sentimento e con la vita in generale sia cambiato nel tempo. Ed è stata l’esperienza personale a insegnarle a gestire le situazioni con maggiore serenità e consapevolezza, evitando di rimanere ancorata al passato e abbracciando l'evoluzione continua.
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Intervista esclusiva a Silvia D’Amico
In molti sostengono che L’invenzione di noi due, il film come il romanzo, raccontino la crisi del maschio moderno. E se parlassimo invece di una storia che pone l’attenzione sull’autoaffermazione di una donna moderna?
È un punto di vista molto interessante. Di sicuro, la storia offre una prospettiva differente su un uomo che osserva e asseconda la sua donna nel tentativo di riconquistarla. Una donna che vive un momento di crisi assolutamente professionale, personale ed esistenziale, che l’ha portata a riconsiderare il loro rapporto in base a tutti gli stimoli che riceve dall’esterno. È, dunque, un film sull’autoaffermazione femminile intesa come processo che permette a Nadia di capire se stessa, dov’è e che cosa vuole, di mettere in discussione tutto ciò che ha, anche il legame con un uomo che accoglie, non passivamente, quello che succede alla donna che ha accanto. Per una volta tanto, non accade il contrario.
Nadia è un personaggio femminile che non ha la necessità di essere descritto in funzione a un uomo, una novità molto interessante soprattutto nel panorama del cinema italiano: una bella sfida per un’attrice?
Una bella sfida, anche perché si tratta di un messaggio involontario che il film lancia: sia nel realizzarlo sia nel rivedendolo e parlandone, non avevamo mai affrontato la questione. Penso che questa sia anche la chiave vincente di questo prodotto: il tema non è messo al centro e non è il pretesto su cui si svolge la storia, è semmai una variabile com’è giusto che sia e che potrebbe anche essere a parti invertite… una variabile che non è considerata speciale ma naturale. Ed è per me un grande risultato, anche come attrice che ha contribuito alla realizzazione.
L’invenzione di noi due rimane, comunque, un film che si interroga sull’amore e la sua evoluzione nel tempo e nello spazio. Nadia e Milo da adulti sono due personaggi del tutto diverso da come erano da giovani. Hai mai avuto la sensazione di stare interpretando due ruoli anziché uno?
Si, ma ho anche avvertito la responsabilità di interpretare un personaggio che attraversa un arco temporale nel quale gli succedono cose in cui ogni persona potrebbe ritrovarsi: è come se avessi attraversato il paradigma di un arco dell’esistenza di una persona. Ci sono tante azioni e gesta che Nadia fa che non sempre sono consequenziali, causa ed effetto, soprattutto nella seconda parte, quando nella fase adulta, non sempre è motivata da qualcosa. È come se fosse stato un altro personaggio ma nello stesso contenitore…
Nell’affrontarlo, mi ha aiutato tantissimo anche specchiarmi negli occhi, nei cambiamenti, negli abiti e nella faccia anche fisicamente trasformata di Lino Guanciale rispetto al suo Milo del passato. È un lavoro che abbiamo fatto in sinergia: siamo cambiati insieme e ci siamo sempre molto intonati a quello che succedeva, anche nelle scene in cui, dovendo raccontare l’età adulta dei personaggi, ci si doveva semplicemente dire un “Come stai? Io esco” dietro cui c’era molto di non detto.
In Nadia col passare degli anni cambia la concezione dell’amore. È cambiata anche in Silvia nel passaggio da adolescente a giovane donna?
Ho visto cambiare il mio rapporto con tutto, compreso l’amore. L’invenzione di noi due è un film che mi ha offerto anche l’occasione per riflettere sul tema dell’amore e sul mio punto di vista. Ed è stato arricchente farlo per farti capire come la maturità e le esperienze ti aiutino a comportarti in maniera diversa a seconda delle situazioni che affronti. Non vale solo in amore: fino a dieci anni fa, ad esempio, affrontavo i festival con molta più agitazione di oggi proprio perché l’esperienza mi ha insegnato a lasciare andare alcune robe o a concentrarmi su altre.
Non sottovalutiamo quanto importante sia l’esperienza, il crescere e il cambiare insieme all’età. Personalmente, tendo a cambiare molto, anche idea, perché mi piace evolvermi e non rimanere mai ancorata al passato nostalgico per qualcosa che ho vissuto e che non è più come prima.
Il tuo cambiamento, però, frena di fronte alla passione per la recitazione mentre Nadia arriva a mettere in discussione la sua identità di scrittrice o aspirante tale. Hai mai vissuto un momento nel tuo percorso in cui ti sei mai chiesta “ma chi me l’ha fatto fare?” nei confronti della tua professione?
No. In questo, mi reputo molto fortunata non solo per le occasioni che ho avuto ma anche perché il mio percorso è frutto di un lavoro che va avanti da diversi anni. Non penso che niente di quello che mi è successo sia stata una gran botta di fortuna, non c’è mai stata un’esplosione che mi ha consacrata o un regista che mi ha particolarmente notata: tutto ciò che ho attraversato, me lo sono conquistato.
La mia esperienza è molto diversa da quella di Nadia, non nego che ci siano stati momenti più difficili di altri ma non ho mai messo in dubbio il mio lavoro o ciò che avrei voluto fare, soprattutto per via del mio carattere. Gli attori, sia quelli che riescono sia quelli che non riescono, si distinguono sicuramente per il talento e per le occasioni ma anche per la propensione naturale e l’indole. Se tante cose non le avessi affrontate con leggerezza in alcune circostanze e con tenacia in altre, probabilmente non sarei dove sto: mi sarei avvilita al primo o secondo “no”.
Attrice nell’anima lo sei da sempre, da quando a otto anni chiedevi a tuo padre di regalarti libri di Molière da leggere. Ma quando hai fatto scrivere “attrice” sulla carta d’identità alla voce “professione”?
Ancora mi vergogno a dirlo. Mesi fa ho fatto un viaggio per cui mi serviva il passaporto e quando mi hanno chiesto che lavoro facessi ho provato un certo imbarazzo nel pronunciarlo. Sono più attaccata alla terra, a ciò che è concreto e materiale, che non riesco a togliere dalla mia testa ma soprattutto da quella degli altri il pregiudizio che gira intorno alla parola. In molti pensano che gli attori non facciano niente e che conducano una vita facile, fatta solo di tappeti rossi e belle occasioni, quando invece sarebbe l’ora di capire che è un lavoro duro che richiede non solo talento ma anche intelligenza, pazienza e incoscienza a tutto tondo. Non si smette ad esempio mai e più progetti porti a termine più realizzi che è un lavoro a tutti gli effetti come tanti altri.
Qual è la più grande incoscienza che il lavoro di attrice ti ha richiesto?
Non si tratta di cercare il caso eclatante. L’incoscienza è quella che ti viene richiesta ogni tanto quando devi lasciare andare un no, superare qualcosa che non va o gestire un pubblico di persone o di fotografi che ti terrorizza. Consiste nel non pensare, nel buttarsi e nell’andare: è un esercizio che metto in atto sia quando lavoro su un set sia quando mi trovo a relazionarmi con gli altri.
L’incoscienza di essere me stessa è forse la mia più grande incoscienza: spesso c’è chi mi consiglia cosa o come dovrei fare ma preferisco farlo a modo mio, anche sbagliando e pagandone le conseguenze. Ho come bisogno dei salti nel buio.
Considerando i tuoi lavori tra cinema, televisione e teatro, cosa ti spinge a interessarti a una storia anziché a un’altra?
Anche in questo caso sono molto le variabili che entrano in gioco. Mi informo ad esempio prima sul percorso del regista, sulla storia o su tutto il contesto di lavoro che andrei ad approcciare. Però, a esser sincera, ciò che mi stimola di più è il cambiamento. Più un ruolo è diverso da me e mi dà possibilità di esplorare qualcosa che non ho ancora attraversato, più mi interessa perché mi offre l’opportunità di farmi vedere trasformata. Ed è questo il trait d’union del mio percorso: provo a portarlo avanti nonostante viva e lavori in un Paese in cui se sei bravo a far una cosa ti etichettano chiedendoti di reiterarla all’infinito.
L'invenzione di noi due: Le foto del film
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Ci sono stati progetti che si sono rivelati diversi da come te li aspettavi?
Ogni progetto è diverso da come lo immagini perché tutto è diverso da come te lo prospetti. Non farei il lavoro che ho scelto se non riuscissi a adattarmi alla variabile dell’imprevedibile o del gusto degli altri. Un’altra delle qualità che spero di avere è la malleabilità: mi piace essere messa di fronte a prove in cui tutto non è come previsto. Sono cresciuta avendo come maestro Carlo Cecchi e, dunque, considero la variabile dell’imprevedibile come il sale di questo lavoro: il divertimento di farlo è dato dal sorprendersi ogni volta. Se arrivassi con un pacchetto già confezionato in cui tutto è come mi aspetto da quando leggo la sceneggiatura a quando arrivo sul set, metà dell’esperienza per me sarebbe bruciata.
Divertimento: non hanno allora torto gli inglesi per cui recitare è to play, giocare, con l’imprevedibilità della scommessa e dell’ignoto.
Assolutamente. Arrivo sui set sempre molto preparata, con le mie idee e il mio studio a casa ma sono pronta a vivere il momento e quello che accade. In un’intervista, Lino Guanciale ha detto di me una frase che mi ha fatto molto piacere: “Silvia ti obbliga a essere te stesso senza vie di mezzo”. Questo perché non riesco a rimanere in silenzio o a tenermi per me qualcosa sul set: la devo dire o vado in un’altra direzione. Ed è bello perché molto spesso anche chi sta con me mi segue. È qualcosa che ho appreso dagli altri ma di cui ho fatto tantissimo tesoro.
Apprendere fa tornare alla mente lo studio. Qual è il più grande insegnamento che l’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico ti ha impartito?
Sono un’attrice legata all’accademia in quanto scuola. Occorre avere quella formazione che il permesso accademico ti dà mettendoti dentro una palestra dentro cui puoi sbagliare tutte le volte che vuoi. Lo capisci però solo dopo: quando a 19 anni, giovanissima, ero lì che arrabattavo, mi arrabbiavo tutte le volte senza aver ancora realizzato che era un contenitore sicuro nel quale puoi provare e riprovare senza niente che ti demolisca tanto quanto i “no” fuori. Perché ogni “no” fuori sono un’occasione e un lavoro persi: dentro la scuola, hai sempre la possibilità di rimediare.
Sono capitata alla Silvio D’Amico in anni fortunati, in cui noi allievi abbiamo avuto una grande varietà di maestri con cui confrontarti. Non c’erano diktat, per cui potevi apprendere qualcosa da uno e qualcos’altro da un altro ancora, l’ideale per chi come me non ama seguire soltanto un metodo.
Cosa hai provato quando per la prima volta si è accesa per te la luce della telecamera o della macchina da presa?
Ho un ricordo molto chiaro e lucido di quel momento. Ero ancora studentessa all’Accademia e stavo preparando un saggio quando sono andata a sostenere un provino per Giuseppe Piccioni (per il film Il rosso e il blu, ndr) senza alcun rudimento sul cinema dato che non avevo nemmeno mai girato un cortometraggio o uno spot, niente di niente. Il regista, presente con la casting director, mi disse che non avrei dovuto far niente di fronte alla camera: dovevo solo stare in silenzio e guardare in macchina. Ma quando si è accesa la luce mi sono sentita come dentro a una bolla o a una lente di ingrandimento che amplificava tutto ma che allo stesso tempo mi rassicurava. Mi restituiva un senso di placidità e di espansione dell’anima.
In una delle scene cruciali del film L’invenzione di noi due, Nadia fa un discorso a Milo che mette in opposizione “deludere” e “illudere”. Cosa sceglie Silvia D’Amico tra le due azioni?
Domanda complessa. Ma io non illudo mai: semmai, a costo di essere me stessa, deludo, però non riesco a mentire.
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